Il regno del Tartaro ha le sue leggi. Lo sa bene Alcesti, che non ha più potuto godere della vita, Euridice, che non è riuscita a compiere l’ultimo passo al di fuori dell’ombra, e anche Eracle, che forte della sua divinità ha osato percorrere la strada in direzione inversa, ma che ha sembra provare orrore per il freddo destino che lo avrebbe atteso.
Il regno del Tartaro non conosce speranza, e chi vi abita lo sa bene, anche gli amati dagli dei. Non contatemi fra gli dei che possono amare, Omero, non io, con l’eccezione della fanciulla che ho rapito. Ho creato questo giardino per dimostrare che la morte si fossilizza sui rancori, che le anime non riescono a dimenticare i torti. Per l’eternità vagheranno in questa bellezza senza nemmeno vederla. Esattamente come te, Omero, che cieco non hai potuto ammirare neppure la vita. Forse per questo sei immune alla disperazione di queste contrade. Ancora ascolti, ancora racconti. E raccontando sopravvivi negli inferi.
Le vette dell’Olimpo splendono al sole, è là che si giocano i destini dei viventi. Ma quaggiù tutto è condannato all’immobilità. Gli imperi passano, le persone vengono dimenticate, le lacrime scorrono via, e non rimane che qualche graffio su una terra che non può fare a meno di rigenerarsi e far piombare nuovi mortali in questo labirinto.
Non c’è fuga possibile. Le Moire non lo permettono. Non c’è speranza, l’immobilità è la vera prigione di chi non sa accettare il proprio destino.
Ora, Omero, è tempo di tornare ai tuoi canti.
