Campi Elisi – Pt. 18 FINE

Il regno del Tartaro ha le sue leggi. Lo sa bene Alcesti, che non ha più potuto godere della vita, Euridice, che non è riuscita a compiere l’ultimo passo al di fuori dell’ombra, e anche Eracle, che forte della sua divinità ha osato percorrere la strada in direzione inversa, ma che ha sembra provare orrore per il freddo destino che lo avrebbe atteso.

Il regno del Tartaro non conosce speranza, e chi vi abita lo sa bene, anche gli amati dagli dei. Non contatemi fra gli dei che possono amare, Omero, non io, con l’eccezione della fanciulla che ho rapito. Ho creato questo giardino per dimostrare che la morte si fossilizza sui rancori, che le anime non riescono a dimenticare i torti. Per l’eternità vagheranno in questa bellezza senza nemmeno vederla. Esattamente come te, Omero, che cieco non hai potuto ammirare neppure la vita. Forse per questo sei immune alla disperazione di queste contrade. Ancora ascolti, ancora racconti. E raccontando sopravvivi negli inferi.

Le vette dell’Olimpo splendono al sole, è là che si giocano i destini dei viventi. Ma quaggiù tutto è condannato all’immobilità. Gli imperi passano, le persone vengono dimenticate, le lacrime scorrono via, e non rimane che qualche graffio su una terra che non può fare a meno di rigenerarsi e far piombare nuovi mortali in questo labirinto.

Non c’è fuga possibile. Le Moire non lo permettono. Non c’è speranza, l’immobilità è la vera prigione di chi non sa accettare il proprio destino.

Ora, Omero, è tempo di tornare ai tuoi canti.

Campi Elisi – Pt. 17

Le tre Moire regnano nel mondo della luce, anche se la loro dimora risiede in questo intrico di cunicoli, un labirinto che non lascerà sfuggire nessuno dei suoi occupanti. Di me sopravvive solo l’eco sfuocata di una voce lontana, perché le tre megere, le tre moire lo hanno deciso. Le sento mentre una fila e l’altra borbotta assegnando il destino a ciascuna anima. E poi c’è questo stridio, un suono metallo di lama che recide un filo: è la terza, che, sorda a ogni preghiera, recide il flebile filo che tiene unita l’anima alla carne.

Sento la loro cantilena, perché ovunque si sparge, solo che il rumore del mondo la cela e la mimetizza. Sento calare la mano precisa sul fato di un estraneo, e poi su un altro e su un altro ancora. Un ritmo doloroso ma inevitabile, che non si arresterà mai.

“Poeta, ci sei venuto a trovare? La tela dei tuoi racconti ha dato immortalità a molti i cui destini si sono interrotti dopo un breve tempo di filatura. La poesia e la memoria possono mettere le mani là dove neppure gli dei possono operare”.

“Il poeta cieco si aggira da queste parti, sorella? Ma chi davvero è questo Omero? Non ricordo il suo filo?”

“Ho spezzato molti fili, ho tranciato di netto filamenti di poeta, come potrei enumerare tutti i cantastorie che ho taciuto?”

“Ma questo non tace, sorella. Omero lo chiamano, ma ha altri mille nomi, e forse di più ancora. La fama rompe ogni legge”.

“La fama, e le storie che rendono immortali gli uomini più degli dei”

Campi Elisi – Pt. 16

“Per amore, però, caro poeta, io ho rinunciato al sole”.

“Mia regina, Proserpina, la ragazza della primavera. Dicono che non sia stato amore ciò che ti ha condotto in questo regno, ma un rapimento e un chicco di melograno”.

“Ero giovane, ma ero pur sempre una dea. Conoscevo le leggi dell’Oltretomba, della vita e della morte. Ade mi scelse, e io decisi di rimanere. Come può un melograno, simbolo di vita e di fertilità, trovarsi in queste terre fredde? Ora questa è la mia casa, anche se nella stagione della rinascita salgo nel vecchio regno mutante di mia madre, a vedere il sole”.

“Perché le anime vagano nei Campi Elisi, perché non destinarle all’oblio, come le moltitudine che si perdono nell’oscurità della morte?”

“Sono regole, Omero, regole che Ade stesso non può governare. E poi ci sono le scelte. C’è chi non vuole dimenticare e non vuole essere dimenticato, riducendosi a spettro di se stesso”.

“Anch’io”.

“Quale poeta auspica l’oblio? Anche il più oscuro scribacchino sogna la fama, un qualche riconoscimento. I mortali desiderano l’eternità, così come gli dei invidiano la loro mutevolezza”.

“Non sembra esistere mondi felici”.

“Ti sbagli, esistono. Sono una miriade di universi creati in attimi di felicità, sono frammenti troppo spesso sottovalutati e dimenticati, risate e abbracci che sono fioriti con una bellezza che farebbe sbiadire persino la rosa più bella. Una volta passati, però, il loro sole si spegne, inghiottito dalla quotidianità”.

“Proserpina, almeno tu hai trovato il tuo posto?”

“È ora di tornare tra i tuoi eroi, Omero”.

Campi Elisi – Pt. 14

“Mille voci siamo, e parliamo con gli dei. Sussurriamo il futuro, vediamo fra le pieghe di ciò che deve ancora avvenire. Le nostre parole si susseguono leggere, talmente lievi da essere scompigliate da un semplice alito di vento. Sibille ci chiamiamo, e Apollo ci parla”.

“Rincorri, rincorri quella foglia e vedrai che il destino che ti attende non sorriderà ancora per molto. Cosa dici? I nostri occhi sono troppo offuscati dal fumo per vedere il tuo volto e la tua voce si confonde tra quelle di mille altre domande”

“Il figlio diventerà il tuo assassino, guardati dalle mani di chi non conosci”.

“La follia si posa sulle nostre labbra. Un canto millenario di speranze, morte, disperazioni e successo si intreccia attorno a chi richiede il nostro consiglio. Vogliono parlare con il dio, ma si devono accontentare delle parole di Sibilla”.

“Grandi navi, legno per proteggere le città Vedo la rovino, ma vedo la salvezza. Forse solo chi sa già la risposta riuscirà a capire quel che vogliamo”.

“Un dio non parla con voci umane, un dio non può usare un linguaggio mortale. Non stupirti della nostra confusione. Sei tu che non sei allo stesso livello di un immortale. I piani degli dei sono imperscrutabili dalle vostre menti. Noi siamo solo un ponte”.

“E quindi, straniero, dicci. Cosa vorresti svelato?”

Campi Elisi – Pt. 13

Pochi possono vantare di aver varcato le soglie dell’Oltretomba, poiché alle anime non è permesso tornare sui propri passi per rivedere i viventi. Tra quei pochi, una donna che ha desiderato morire e un eroe che è stato avvolto da un bruciante tradimento sono riusciti a risalire in superficie.

“Ma a che prezzo”.

“Alcesti, moglie e madre: sei stata pronta a sacrificarti per tuo marito, quando nessuno mai lo avrebbe fatto, e mi sono sdebitato della cortesia dimostratami dalla tua famiglia e ti ho strappata al tartaro”.

“Non è una fatica che ti sia stata richiesta, Eracle. La decisione era stata presa, il mio corpo giaceva freddo e senza vita, mentre l’anima vagava anzitempo in questi campi, sollevata dalle noie terrene, dalla voce petulante di un marito che questua anni di vita. Io ho voluto dare l’esempio, e non un uomo, un guerriero, io, la donna che dovrebbe rimanere a vegliare il focolare”.

“Se non fosse stato per un errore anche Euridice avrebbe condiviso il tuo fato. Perché ti lamenti?”

“Felice Euridice che è scomparsa alla soglia, prima che la sua anima pallida toccasse il sole. Gli occhi umani non possono tollerare di vedere in faccia Proserpina, la mente è in grado di sopravvivere a questo freddo. Io ero morta, e morta sono rimasta, un semplice simulacro affianco a un uomo che non chiedeva altro se non una statua muta e fredda”.

“Io sono sceso, salito, sono stato fatto dio, e non mi è sembrato così faticoso”.

“Eracle, la tua mente di semidio segue strade più semplici della mente di una mortale. Nelle tue vene scorre il sangue del padre degli dei. Per te la mortalità non è che un passaggio. Ma per noi la morte non è reversibile”.

“Il tempo qui non cambia mai, e neppure i tuoi discorsi, Alcesti. Hai abbracciato la morte per dimostrare quanto fosse patetico il tuo sposo, mi hai seguito con il capo chino, avvolta in una veste nera, e così ti ritrovo ancora una volta negli inferi, infelice di quello che ti ho offerto”.

“Mi hai offerto una parvenza di vita. Torna a giocare con la tua pelle di leone, Eracle, e io torno al mio rancore”.

Campi Elisi – Pt. 11

“C’è molto dolore in questi luoghi, poeta. Un dolore antico, che riecheggia come se Eco fosse stata intrappolata in queste mura. Ma Eco è una ninfa, ed è tornata a far parte della natura, non come noi, condannati a non sentire mai più il calore del sole. Sole, padre mio, non mi hai impedito di soffrire terribili sventure in vita”.

“Medea, riconoscerei la tua voce da fattucchiera tra mille donne. Molti direbbero che sei stata tu stessa artefice della tua rovina”.

“La gente parla, ma la gente non sempre sa. Giudicano usando loro stessi come unità di misura, ma rispetto alla mia, loro non sono che piccoli e insignificanti nani”.

“Le tue mani sono sporche di sangue. Sangue di fratello, sangue dei figli. Hai sparso la morte con i tuoi veleni e con le tue azioni”.

“Gli infidi veleni sono per i nemici che non meritano la mia presenza. Ma le mie creature, e anche quel giovane che ha cercato di fermarmi, loro hanno meritato che le mie mani si stringessero sulle loro membra. Ho voluto assistere a ogni singolo respiro, fino all’ultimo momento, in cui gli occhi luccicano più del sole. I sacrifici sono necessari. Lo chiedono gli dei, lo chiede l’amore. La colpa risiede in quell’infido uomo che mi promise amore, ma mi diede solo una vita in esilio, negletta e sempre straniera, in una terra che non ha mai voluto riconoscermi”.

“L’errore causa grandi dolori. Ma può questo rancore giustificare il sangue sparso? Può essere abbastanza per calare il coltello sul collo dei figli?”

“Non ci sono innocenti in questi campi, Omero. Ne hai forse trovato qualcuno?”

“Eppure, tra tutti, ti hanno chiamato assassina”.

“E sono qui, tra gli amati dagli dei”

“Imperscrutabili sono i piani degli dei”

Campi Elisi – Pt. 10

“La mano del padre è la mano dell’assassino. La vedo, la vedo bene. Le mie vesti nuziali sono perfette anche per un sacrificio. Questi uomini lo chiamo re, io lo chiamavo padre, ora lo choamo assassino”.

“No, Ifigenia, non è vero. Un cerbiatto ho sacrificato, così mi hanno detto gli dei. O non saremmo potuti partire”.

“Figlia, ti ho portato in queste terre sconosciute per darti alla vita, ma mi accorgo che solo la morte ti attende. La mano del padre è la mano dell’assassino. La mano del mio sposo calerà armata sul collo di mia figlia. Questo torto non passerà impunito, Agamennone. Te lo giuro, il tuo ritorno sarà tinto di rosso”.

“Clitemnestra, non angustiarti. È stata compiuta la volontà degli dei. Questo mi è stato richiesto, e questo è stato compiuto”.

“Per un refolo di vento, mi si richiede il mio respiro. Come può un’impresa essere propizia se comincia con la morte di un innocente. Non è per colpa mia che questi giovani devono salpare per morire sulla sabbia di una città che nemmeno conoscono, per un re che non è il loro, per una donna che ha fatto una scelta, per un gioco, una scommessa divina. L’invidia degli dei causa grandi dolori”.

Gli dei invidiano la mortalità, i mortali vogliono l’immortalità, e poi ne rimangono prigionieri. Ifigenia sogna di diventare vecchia, magari vicino a un semidio famoso per il suo valore, il semidio sogno la gloria, anche se questa lo priverà della vita, il re sogna la gloria di un campo di battaglia in cui no sarà protagonista, la regina brama vendetta contro chi l’ha privata di ogni felicità.

Campi Elisi – Pt. 9

Gli amati dagli dei. Chi sono veramente gli amati dagli dei? Uomini, donne e semidei che sono diventati dei simboli, che hanno trasformato il loro corpo di carne e ossa in qualcosa che davvero è immortale e che riesce a parlare senza una bocca. Sono idee incarnate in personaggi. Nei Campi Elisi, però, queste idee si ripiegano su se stesse, si ritorcono e non riescono a trovare pace, ripercorrono uno, dieci, mille volte lo stesso percorso che nella vita li ha dilaniati conducendoli alla rovina. Non sono capaci di trovare perdono, questo è compito di chi respira ed è ancora in divenire, non sanno dimenticare, altra capacità che sono chi ha un cuore può comprendere.

La dimenticanza può essere la salvezza. Ma i versi di un poeta cieco e le storie dei suoi successori hanno reso impossibile alle anime scivolare tra le acque del fiume Lete. L’immortalità spetta agli amati degli dei.

“Essere re non ha impedito, però, di essere sgozzato come un animale sacrificale, davanti a una vasca, dopo aver calpestato un tappeto rosso, rosso come il mio sangue, rosso come la vendetta che Clitemnestra ha voluto giocare su di me. Ero un re, sono stato ridotto a una vittima”.

“Agamennone il tuo lamento rimbomba tra i tuoi discendenti e ripete le maledizioni di Atreo. La tua stirpe non è fortunata. La tua stirpe è antica, e le leggi che la regolano lo sono altrettanto”.

“Poeta, parli di leggi, come se fossero le costanti che scandiscono i tuoi versi, un ritmo che si propaga ovunque e che affligge i miei antenati e i miei discendenti. Forse qualcuno si salverà”.

“Si salverà il figlio, che sporco di vendetta ha chiesto giustizia agli uomini. Anche le Erinni devono trovare pace. Anche le Erinni si sono stancate di rincorrere un colpevole che trascina il pesante fardello dei padri”.

“E Ifigenia. Che ne è di Ifigenia”.

“Lei è stata la tua vittima. E tu lo sai, Agamennone. Sei stato sacrificato all’altare esattamente come tu hai immolato una fanciulla per una guerra che ha richiesto fin troppi sacrifici”.

“La mano del padre è la mano dell’assassino. Dunque è vero?”

Campi Elisi – Pt. 8

“Di risposte è fatta la mia vita”.

Ma certo, chi meglio di Edipo potrebbe parlare di risposte. Dopotutto la sua vita era punteggiata da punti interrogativi da dover risolvere, e a ogni risposta piombava sempre più a fondo in un baratro di dolore e di fraintendimenti. Eccolo, quindi, cieco e maledetto, perché nemmeno gli occhi gli hanno permesso di vedere l’inganno e la rovina piombare su di lui.

“Pensavo di essere superiore agli altri per intelletto. Liberai Tebe dalla sfinge, ho visto quell’essere antico e saggio chinarsi alla mia intelligenza mortale. Edipo il salvatore, Edipo il re. Ero indebriato dalla gloria, asuefatto dal successo. Ero un uomo che si sentiva invincibile e immortale. Ma ero cieco ancor prima di strapparmi gli occhi: non vedevo le mani sporche di sangue e non riconoscevo neppure mia madre. Ero senza vista, anche se potevo ammirare il sole e vedere i volti dei miei figli fratelli”.

A volte il fato sa essere crudele e non perdona nemmeno chi ha compiuto atrocità senza sapere di essere un mostro.

“Spiegami Omero: chi è più mostro, il parricida che sposò la madre, o una chimera che sputa lingue di fuoco? La seconda segue solo la sua natura, anche se tremenda, il primo sovverte l’ordine, anche se senza volerlo”.

Ma sono solo un cieco poeta che non ha voglia di rispondere. Ho cercato di cucire nei versi dei suggerimenti, delle risposte, che potessero illuminare la strada offuscata di qualche umano. Un cieco che guida un esercito di ciechi non ottiene la vittoria con facilità.

“La fine mi colse e mi portò qui, dopo una vita di povertà e disperazione. Anche questa è una risposta”.

Campi Elisi

Narrano di terre vaste e rigogliose, in cui crescono alberi di ogni tipo, sempre in fiore, sempre con i rami carichi di frutta, in qualsiasi mese dell’anno. In quel paese non esistono stagioni, al giorno non segue la notte, il tempo è cristalizzato.

Lì potrai trovare strani personaggi che riposano.

Un bel giovane stende le gambe mollemente mentre suona la cetra cantando leggende di altri tempi. Poco lontano un ragazzo lo ascolta, in silenzio, rapito, senza mai distogliere gli occhi. Il primo non può fare a meno di sorridere compiaciuto, mentre ricorda le gesta di eroi pronti a combattere in terre lontane solo per la gloria, per diventare a parole immortali. Al suo fianco, gettato a terra, uno scudo di metallo riflette la luce facendo invidia al sole stesso, mentre il giovinetto gioca ozioso con elmo.

Una donna possente li spia da lontano. Ha le braccia muscolose, lo sguardo limpido e duro. In seno porta ancora il rancore di una morte non voluta, di un oltraggio che non può essere vendicato.

Accanto al fiume limpido sospira un uomo dai capelli neri e ricci. È tranquillo, ma un velo di tristezza cala sugli occhi mentre rimira l’acqua. Gli mancano le onde, l’odore salmastro, il sale che tira la pelle, il suono dei flutti che si infrangono come sogni, che raccontano di gente sconosciuta, di terre lontane, di una casa che lo attende, di un’isola tanto amata quanto lontana.

Su una pietra sta seduta una donna velata, che culla un bimbo. Il destino, o un malvagio ordine, lo ha condannato a rimanere un infante per sempre. Nelle orecchie rieccheggia ancora il grido disperato della madre mentre lo allontanano a forza dal suo seno. Sulla sua pelle il sentore dell’aria che lo sferza, ma che non è capace di frenare la sua caduta. “Padre, dove sei?”.

Un poco in disparte il padre guarda la triste coppia, e in cuor suo si rammarica di non essere riuscito a dar loro un futuro. “Tu sei per me marito, padre e fratello”. Eppure si sentiva un semplice assassino incapace di difendere la sua famiglia, la sua città.

Un vecchio cerca di consolarlo, mentre gli cura le piaghe attorno alle caviglie e le ferite sulla schiena. Parla piano, mentre enumera il destino dei suoi numerosi figli.

Un energumeno muscoloso accarezza uno strano manto. Pensa ad un altro mantello, regalatogli dalla sua amata, ardente come la gelosia di lei, pensante come centinaia di fatiche, letale come un’idra che non può essere sconfitta.

Gli amati dagli dei, li chiamano. Uomini perduti, sofferenti, dal fato segnato. Amati dagli dei, dicono.