Il gioco

Negli ultimi tempi c’è qualcosa che manca, l’ingrediente che, come il sale, rende interessante qualsiasi cibo, ne esalta i sapori e i piaceri: il gioco.

Il gioco è una parte fondamentale della vita, troppo spesso relegato all’infanzia. Il divertimento viene spesso ammantato di un significato negativo, di superficialità, soprattutto in alcuni ambienti in cui la risata viene considerata alla stregua di un peccato. E sarebbe proprio in quegli ambiti che una bella risalta sarebbe benefica. Ma spesso gli appartenenti si limitano alla canzonatura disprezzante di chi non appartiene alla propria cerchia, senza capire di essere loro stessi delle grottesche.

Il gioco rende lieve la vita, il gioco illumina anche la giornata più scura perché riesce a colorare le nebbie del cuore. Certo, l’importante è non scivolare nella buffoneria e nel circo.

Negli ultimi mesi è mancata proprio questa componente. Il mondo circostante si è fatto più opaco, come quando all’orizzonte si vedono le nuvole addensarsi. Si è affievolita una scintilla, soffocata da troppe preoccupazioni e da un’attesa che si è protratta da troppo tempo. L’attesa di un cambiamento che si sta facendo strada e che potrebbe allontanare, o per lo meno cambiare, quelle nuvole che si affrettano ad avvicinarsi.

Ombre

Se nella vita hai visto solo ombre, come puoi pretendere di comprendere i corpi?

Era una domanda che Asclepio si era posto più di volta, durante i suoi studi medici. Gli sembrava di avere a che fare sempre con ombre si uomini e non con esseri viventi in carne e ossa.

“Devi avere pazienza, non puoi certo subito avere a che fare con i pazienti. Il tuo è un lavoro molto delicato” gli ripetevano amici, parenti e medici.

Lo avesse saputo, avrebbe evitato quello stillicidio. Non conosceva che la fredda pelle dei cadaveri su cui affinava le proprie tecniche. Molti avrebbero considerato il suo passatempo macabro, altri persino eretico, ma tutti, qualora si ritrovino in bilico tra vita e morte, non indagano sulle pratiche che hanno permesso al dottore di compiere quegli interventi.

Solo ombre per ora. Solo la forma della vita senza la sua sostanza. Eppure il suo nome prometteva bene.

“Non è il nome a fare di te un bravo dottore. Certo, alza le aspettative, non pensi?”

Di aspettative ne avevano avute sempre molte i suoi genitori, anche se avrebbero preferito vedere il figlio ricoprire qualche carica importante nel mondo politico ed ecclesistico, non certo come discendente di barbieri capaci di fare di tutto.

Asclepio. Cosa mai diventerai Asclepio? Un’ombra o un umano?

Passeggeri – Pt. 10 Lorenzo

Lorenzo attendeva. Era una vita che attendeva. Prima di essere compreso, poi di essere apprezzato. Ma è un’attesa che accomuna molte creature che calcano questa terra. Forse per questa sua propensione all’attesa, a Lorenzo piaceva vagare in treno.

Non che avesse una meta precisa. Saliva sul primo treno, senza un biglietto, e poi scendeva una volta arrivato al capolinea, o quando il controllore non decideva che il suo viaggio abusivo fosse finito. Lorenzo era un artista, e nell’attesa la sua mente fioriva di nuove idee, di mille progetti dagli infiniti colori. Poche di queste fantasie, però, avrebbero visto la luce del sole, perché Lorenzo non riteneva la sua arte non fosse che un mero passatempo, non degna del mondo.

Non aveva un vero e proprio posto dove tornare, se si escludeva il rifugio di artisti di strada in cui talvolta trovava pace. Allora quei fiori di idee si trasformavano in una caleidoscopica girandola impazzita, che gli ruota attorno e che lo inibriava. Al risveglio, di quei colori di favola non rimaneva che un vago sentore di vuoto e di paura.

Attesa e paura. Erano questi i due poli entro i quali si muoveva la vita del ragazzo. Attesa che qualcosa cambiasse, paura del cambiamento. Erano i capisaldi della sua prigionia.

Passeggeri – Pt. 9 L’attesa

Nelle carrozze, nelle stazioni, uno dei passeggeri più comuni è l’attesa. Si tratta di una condizione che accomuna tutti. Si attende alla banchina che arrivi il treno, si attende al proprio posto di arrivare a destinazione. Si attende e si spera che l’attesa non si prolunghi troppo perché da qualche parte c’è qualcuno che aspetta, c’è qualche cosa da fare, una promessa da mantenere.

Sembra che le regole del tempo non valgano una volta partito il treno. Il paesaggio scorre, anche nell’oscurità, schizza via estraneo e ostile, mentre con la mente il passeggero cerca di ricostruire una visione che lo accompagna tutti i giorni. Eppure là fuori sembra tutto così nuovo e così vecchio allo stesso tempo: lo stesso ponte, ma con delle crepe che non erano mai state notate, lo stesso campo, ma con un grano più cresciuto dall’ultima volta che è stato osservato.

Si guarda il mondo scorrere fuori, mentre si è fissi su un sedile, immobili a subire una corsa cui non si può partecipare, in attesa di poter scendere e di imprimere il proprio movimento al mondo circostante. Intanto, però, si attende che qualcosa cambi.

Questione di perfezione

Deve essere difficile essere sempre perfetti, non commettere mai un errore, o anche solo pensare di essere in quella sfera di perfezione in cui si è esentati dall’errore. Difficile perché arduo è mantenere uno sfarzoso e ingombrante costume pulito e perfetto. Ma anche rassicurante: vengono creati dei confini, talvolta molto ristretti, oltre i quali regna la falsità e l’errore.

Non si ammette che qualche cosa di diverso possa accadere nella propria vita, non si ammettono errori, al massimo si attribuisce una certa villania a chi si trova nei pressi. Il mondo viene diviso in modo netto in due, da una parte se stessi, eroi che non commettono mai errori, e dall’altra le tenebre dell’ignoranza.

Si è portati, quindi, a giudicare. Si giudica la cultura, l’estrazione sociale, il lavoro, il fisico, perfino i sogni e gli interessi. Il tutto con un bel segno rosso a croce che ne nega l’importanza. Perché il cuore della propria perfezione sta nello sminuire il mondo degli altri.

La famiglia del non detto

In questa famiglia meglio parlare per sottointesi. Tutto deve essere intuito e compreso, perché la verità può assumere uno strano aspetto se viene pronunciata a voce alta. Nel non detto si celano le ombre della probabilità e le luci della possibilità di aver frainteso.

Ma nella famiglia del non detto il dubbio crea castelli di terrore e di insicurezze, perché è meglio identificare il peggio per non trovarsi davanti a problemi inimmaginati. Si tendono le orecchie, si aguzzano gli occhi, si mettono in allarme tutti i sensi in modo da poter percepire anche il minimo cambiamento. Chi ne fa parte diventa una sorta di ragno che tesse la sua trappola pronto a percepirne ogni vibrazione.

E questa vibrazione di propaga come un’onda, e una volta raggiunta riva può anche spazzare via tutto ciò che trova, spezzare le deboli difese innalzate. Perché nel non detto trovano rifugio anche bugie e silenzi che possono creare una devastazione maggiore delle parole.

Menestrello

È facile crederlo un perditempo, da inserire senza alcun dubbio nella categoria degli sfaccendati buoni a nulla. È facile cadere nell’errore che essere un menestrello significhi oziare e raccontare fandonia nelle corti e nelle piazze. Tipi come lui non vengono certo accolti con uno sguardo di favore, ma alla fine tutti si accalcano per sentire le sue storie.

Che cosa sono le vite se non magnifiche costruzioni? Sfiderei chiunque a parlare della propria vita senza aggiungere piccoli abbellimenti o omettere particolari non piacevoli. Per quanto non piaccia ammetterlo, tutti hanno bisogno di storie, e i menestrelli sono pronti a soddisfare questa esigenza.

Allora avvicinatevi, venite e ascoltate cosa abbiamo da raccontare. Storie vere che vengono da terre lontane, storie inventate che sgorgano dalle profondità del cuore. Draghi ed eserciti fanno parte di una sola costruzione, di un castello che alla terra della verità uniscono le limpide acque dell’immaginazione.

Il mondo sembrerebbe un po’ più cupo senza i menestrelli, la morte non avrebbe senso, la parola sarebbe solo un mezzo di scambio, una vile moneta da usare con parsimonia. Davanti a un re e davanti al popolo, invece, prende vita un’altra realtà, forse più cruenta, forse più magnanima, di certo diversa dalla monotonia del quotidiano.

Passeggeri – Pt. 8 Arrivare

L’importante è arrivare alla meta: è una convinzione comune che non ha molto senso, almeno non per queste creature che si sono rannicchiati in sedili consumati e che guardano fuori dal finestrino alla ricerca di un paesaggio inghiottito dal buio.

Sembra quasi che si voglia cancellare il tempo sospeso del viaggio, durante il quale i confini cambiano, i nomi di città e paesi mutano repentini, annullando in questo modo la distanza tra partenza e arrivo. Eppure talvolta si desidera che questi momenti inafferrabili si prolunghino in un vagabondaggio senza confini e senza limiti, per fuggire all’ignoto dell’arrivo, a quelle tenebre che il treno si lascia indietro.

Negli scompartimenti la si può quasi toccare, la leggera ansia dell’arrivo. È formata dalla paura di lasciar passare la fermata perfetta, o di no raggiungerla. Si può percepire lo sgomento di aver sbagliato, di non aver capito che treno prendere o in quale stazione scendere.

L’arrivo porta sempre con sé delle complicazioni, perché quando si chiudono le porte del treno si apre l’immenso mondo che non è delimitato da una latta di metallo.