Multiforme – Pt. 5

In una nave la tecnica deve cambiare, anche perché il tempo in luoghi di questo tipo, cambia, si dilata, almeno nella testa dei passeggeri. Non sono possibili gite fuori porta, il paesaggio è una monotona distesa di acqua, e i commensali sono i soliti compagni di viaggio. Quello che hanno bisogni i ricchi fortunati della prima classe è di una distrazione, e se si vuole entrare nelle loro grazie, è meglio trovare il modo per garantirla. E a due giorni dalla partenza ancora non avevo capito come fare: una perdita di tempo inaccettabile.

E Annette, una ragazza piacente che si occupava delle pulizie, costituiva una tessera fondamentale per ottenere le giuste informazioni.

“La duchessa di Greville?” mi chiese dubbiosa mentre si rivestiva. “E chi sarebbe?”

Peccato che la ragazza non avesse nessun interesse per i nomi. Per lei era solo una questione di numeri di camere e di fissazioni di chi vi alloggiava.

“Una vecchia signora, che viaggia da sola verso l’America per incontrare suo nipote” le spiegai.

“Può essere che sia la stanza 106. Più che stanza è un appartamento, ma è evidente che ci sia qualcuno di anziano, vista la quantità di coperte e di corpetti che non vanno più di moda. Una donna sola, comunque: nessuna foto, nessuna lettera da parte di nipoti. Anzi, una foto c’è, messa propria sulla specchiera: è di un cane, uno di quelli piccoli, con gli occhi sporgenti”.

Mi alzai e le cinsi la vita. “Uhm, neppure io ho foto”. “Già, un uomo solo, ma moderno, con una certa passione per i capelli” mi disse con una risata indicando la pomata vicino allo specchio.

“Perché ti interessa quella vecchia?”.

“Magari ho degli strani gusti”. Le diedi un morso scherzo su una spalla e mi affrettai a vestirmi. L’ora del pranzo era vicina.

Fruscio

Si sente un mormorio provenire da fuori, un sussurro. Sembra pioggia leggera, ma non c’è acqua: è solo lo scherzo del vento che si struscia tra le foglie leggere.

Nic si lascia cullare da quel rumore. Sente quella voce sommessa e le regala un corpo, verde come le fronde che scuote, trasparente come la forza che lo anima. E desidera di essere fatto della stessa materie, o forse è convinto di essere fatto allo stesso modo.

Non ha più capelli, ma stralci di nubi che vengono allungati dalla forza del vento. La pelle scompare sostituita dalla corrente gentile che modella i monti e che li rende sabbia. E i vestiti sono abbandonati su una roccia. Nic è lì, ma allo stesso tempo viaggia, veloce, tra i rami di un albero, sulla distesa arida di un deserto o forse su quel mostro multiforme dell’oceano.

Si perde e non riesce a trovare la strada per tornare. Vorrebbe urlare, ma la sua voce rieccheggia debole fra le montagne. Vorrebbe scappare, ma i piedi prendono una direzione che Nic non riesce a controllare. Vorrebbe piangere e ribellarsi, ma le lacrime non scorrono e i pugni non colpiscono nulla se non il cielo.

Presto o tardi un temporale lo ricondurrà a casa, per mano. Lo depositerà nello stesso punto in cui si trova ora, con il volto girato verso il cielo. Nic sarà scosso, cambiato e arrabbiato. Ma sarà anche più vivo.

Via il vecchio, avanti il nuovo

Grandi cambiamenti si stanno susseguendo, e non è così facile affrontarli. Aggiungetici qualche imprevisto per nulla gradito, ma molto costoso, e avrete la formula perfetta per un umore pessimo. Almeno la prospettiva non è così malvagia come potrebbe sembrare, basta tenere duro, mettercela tutta, e andare avanti.

Ma per procedere è necessario fare un po’ di spazio, lasciar andare la zavorra, come una mongolfiera. Mi sono sempre piaciute le mongolfiere: non ci salirei mai, dato che non mi attrae l’idea di viaggiare in un cesto di vimini sostenuto da una fiamma, ma le ho sempre guardate con la curiosità di una bambina stupefatta. Loro in cielo e io ben piantata per terra.

Tornando a noi, ho dovuto fare spazio, anche fisicamente, e penso che sia solo l’inizio. E per me fare spazio non vuol dire spostare, ma eliminare fisicamente ciò che non mi serve più. Ammetto che si è trattato di una grande fatica, molto simile a un lutto. In primo luogo perché ho eliminato le tracce della mia fatica. Anni di lavoro, che poi si è rivelato nella pratica inutile, stralciati in pochi minuti, in appena una mattina.

Davanti ai cumuli di quella che era diventata mera cianfrusaglia, mi sono sentita persa: tutto quella fatica per diventare cosa? Solo un grande insieme di carta e qualche mucchietto di plastica. E in quella collinetta c’erano ore di studio e di impegno, che ora giacevano scomposti a terra.

Ma è bastato buttare tutto nei bidoni per sentirmi alleggerita. Lo sconforto iniziale è mutato diventando sollievo e un po’ eccitazione per ciò che quegli scaffali avrebbero custodito da ora in poi.

Ultimo giorno

A Fiona non piaceva essere in ritardo, eppure in quel momento si trovava proprio nella peggior situazione immaginabile: sentiva l’acqua alla gola, anzi, aveva la percezione che il liquido stesse già entrando in bocca e scivolando nei polmoni per annegarla. Tutta colpa di quel perdigiorno di Luca che non sapeva far altro se non procrastinare e sperare che tutto andasse per il verso giusto.

Fiona doveva correre, e lei odiava correre. Correre significava sudare, e, non bisognerebbe nemmeno specificarlo, Fiona odiava sudare. Odiava presentarsi trafelata, con il fiatone. Non era professionale, non era nemmeno un bel vedere.

“Solo perché sei fuori allenamento” le diceva Luca con un sorriso smagliante. Fuori allenamento era un eufemismo, dal momento che Fiona odiava praticare qualsiasi tipo di attvità fisica.

E quindi si ritrovò in ufficio dopo aver corso, sudato e con il fiatone. Un sabato non avrebbe potuto andare peggio. Anzi, avrebbe potuto, perché nell’ufficio c’era una coda infinita. Fiona ordiava attendere, soprattutto se era costretta a condividere lo spazio con altriesseri umani. In estate le era persino intollerabile, poiché riusciva sempre a incontrare qualcuno che non conosceva le norme basilari dell’igiene.

Ma Fiona era una persona civile, e ciò che odiava più del prendersi all’ultimo era arrivare in ritardo. Prese il suo numero e attese pazientemente in un angolo. Anche se ci fossero state delle seggiole libere, avrebbe preferito svenire che servirsene. Odiava le sedie scaldate dal corpo altrui.

Infine arrivò il momento di Fiona.

“Buongiorno signora, come la posso aiutare?”

“Devo pagare questa multa”.

“Per fortuna è venuta oggi, è l’ultimo giorno prima che scatti la penale”.

“Non me lo ricordi”.

Fosse stato per Luca, la penale sarebbe stata preferibile a passare una mattinata in coda.

Vampiresco

Troppa luce, tira subito le tende.

Si chiama giorno, mio caro, e ciò significa che è arrivata l’ora di alzarsi.

Sai che odio la luce del sole: troppo intensa, troppo chiara.

Ti fa bene. Sei sempre così pallido, ti sento lavorare di notte, ma di giorno te ne stai chiuso in questa camera, come se fossi in una cripta: finestre sbarrate, tende tirate, porta chiusa. Non è salutare.

Per te non è salutare, io sto benissimo così. E dovresti imparare a non badare a me.

Difficile, visto che condividiamo la stessa casa. E poi cosa mangi, se non viene mai a tavola con gli altri?

Sangue umano, ovvio.

Non essere stupido, non sei Dracula, anche se per pallore potresti fargli invidia.

Il problema è la luce.

No, il problema sei tu.

Come sempre, per te il problema sono sempre io.

No, caro, il problema è la tua dipendenza da quell’affare.

Si chiama cellulare, e quando c’è questa luce non riesco a vedere bene lo schermo.

Appunto, un cellulare ha trasformato mio figlio in un vampiro. Bei tempi in cui bisognava essere morsi da un altro vampiro.

Multiforme – Pt. 4

La nave salpò. Anch’io mi unii a quanti se ne stavo sul ponte a salutare i propri cari rimasti a terra, anche se non c’era nessuno venuto a augurarmi un buon viaggio. Mi parve di scorgere il cappello di un certo commissario, ma la fantasia può giocare brutti scherzi: le indagini non erano certo arrivati al punto da ricollegare l’omicidio del conte alla scia di morti misteriose e truffe argute che mi ero lasciato sulla terraferma. In ogni caso, il cappello era sul molo, mentre io stavo salpando verso una terra in cui le mie mani non avevano ancora operato.

“Chi sta salutando figliolo?”

Le anziane signore sono così premurose: si impegnano con il massimo sforzo a cadere tra le braccia del primo malfattore. Fortuna che io non sia un ladruncolo da quattro soldi.

“Mia sorella, signora…”

“Margaret, duchessa di Greville”.

“Duchessa, piacere. Ulysses Mortimer, conte, per servirla. E lei, chi sta salutando?”

“Quel tontolone di mio nipote. Non saprebbe distinguere il suo volto dal muso di un asino. Non che sia una grande differenza. È da settimane che protesta: prima dice che il viaggio è troppo lungo per una persona anziana, poi che in America non avrei trovato niente. Certo, niente a parte suo cugino, un uomo di talento. Ve lo dico io conte: aveva paura che le mie sostanze prendano un’altra via.”.

La vecchia era ancora in gamba, ma era lenta e acciaccata. Era vestita con lusso, ma con una moda che ormai apparteneva al passato. Ma gli anelli che sfoggiava suggerivano una grande ricchezza. Meglio mantenere i contatti con persone del genere, in modo da poterne approfittare al momento opportuno. Duchessa di Greville: se fossi stato sulla terra ferma non avrei atteso a iniziare il mio corteggiamento. Ma in una nave, la tattica deve cambiare.

Multiforme – Pt. 3

Le navi sono luoghi sospesi in un limbo di indeterminatezza. Basta così poco per spingerle fuori rotta o per farle crollare nell’oblio degli abissi marini. Non che avessi molte aspettative da questo viaggio: il mio intento era solo quello di divertirmi, prendere spunto per dare al conte Mortmer un passato abbastanza affascinante per qualche signora della buona società del paese in cui tutto era possibile. L’Inghilterra era diventata troppo stretta per una mente come la mia e soprattutto per i miei misfatti. C’era un poliziotto, un mero commissario, che si stava interessando un po’ troppo ai casi in cui ero coinvolto, e che stava facendo dei legami che mi avrebbero potuto causare problemi.

Ma per essere un ottimo truffatore bisogna avere ottime spie, anche tra coloro che dovrebbero darti la caccia e impedirti di continuare a compiere misfatti. E quindi mi imbarcai a spesi del conte Mortimer. Anche se ancora non sapevo che questo viaggio si sarebbe rivelato tanto pericoloso quanto proficuo.

Se doveste mai affrontare un viaggio transatlantico, vi consiglio la prima classe: non vi accorgerete neppure che state galleggiando su un guscio di noce in mezzo a un deserto liquido. Il personale poi è squisito: si sono comportati in modo ineccepibile con il conte Mortimer, soprattutto una cameriera giovane e carina, probabilmente attratta dal titolo e dalla prospettiva di una mancia cospicua, che ovviamente ricevette. Altra regola fondamentale è farsi amici tra camerari e governanti: hanno orecchie e occhi ovunque, sono custodi di segreti molti utili.

La piccola e non certo innocente Annette: tanto utile quanto pericolosamente chiacchierona. Se fosse stata più discreta, non avrei dovuto sporcarmi le mani anche in questo viaggio.

Entrare da una porta chiusa

In questi anni c’è la tendenza a pensare che tutti abbiano il diritto di conoscere anche gli aspetti più privati degli interlocutori. Non parlo solo dei social, sui quali si riversano informazioni personali, ma anche ambienti in cui la sfera privata dovrebbe rimanere tale.

La domanda più frequente nei colloqui di lavoro e anche nei moduli per tirocini è “Quali sono i tuo hobby?”

A questo punto si aprono due strade: una è quella di dichiarare i propri interessi, la seconda è individuare delle attivtà che possano essere affini alle aspettative del richiedente. L’ultima volta ho provato la prima opzione e mi è stato fatto notare che erano attività in solitaria.

Non nego di essere una persona a cui piace stare da sola. Non sono del tutto avvulsa dalla società, non abito in un eremo e ho i miei amici, pochi, certo, ma qualcuno è presente. Sono anche abituata a lavorare in gruppo e non ho mai avuto problemi a collaborare. Allora perché devo essere giudicata per come trascorro le mie ore libere? Perché devo difendere i miei interessi.

Facciamo parte di una grande società, ma siamo anche individui, e come tali abbiamo il diritto di lasciare alcune porte chiuse. Quello che faccio al di fuori del lavoro non dovrebbe interessare nessuno. Non tutti possono dedicarsi a sport di gruppo o far parte di gruppi di escursionisti.

Eppure il tentatico di sfondare qualsiasi porta chiusa con l’intento di capire capire chi tu sia e come poter sfruttare ogni tuo aspetto è sempre più invadente. La prossima volta risponderò dicendo che adoro le orgie: è pur sempre un’attività di gruppo potrebbe essere più apprezzata della semplice lettura.

Reazioni

Che cosa ci aspettiamo dalle altre persone? Nella nostra mente pianifichiamo spesso quello che dovrebbe accadere, i tempi e persino le parole che dovrebbero essere pronunciare. Qualora, invece, il percorso cambi, nasce quasi immediatamente la delusione e un pizzico di rabbia.

L’immaginazione è un mezzo potente, e non solo per inventare storie e mondi, ma anche per riuscire ad affrontare situazioni nuove e sconosciute. Una tecnica per non avere paura nell’affrontare le novità è proprio cercare di immaginarsi come quella situazione potrebbbe evolversi, quali potrebbero essere le nostre azioni e cosa potrebbero fare gli interlocutori. Si tratta di un mezzo fantasioso per affrontare la realtà.

Tuttavia si può rivelare un’arma a doppio taglio qualora le nostre aspettative vengano deluse, soprattutto da persone che ci sono vicine. Perché al posto di gioire fanno emergere mille problemi? Perché sostituiscono la soddisfazione attesa con un’imprevista delusione? La risposta razionale è semplice: siamo creature diverse, con cervelli differenti che reagiscono in modo personale alle varie sollecitazioni. Non un concetto sconosciuto, di certo, ma la delusione è sempre dietro l’angolo.

Mi è capitato un po’ di giorni fa di comunicare delle decisioni importanti alla mia famiglia e ad alcuni dei miei amici. Sto cercando di cambiare un po’ di cose nella mia vita, e, con una buona dose di fatica e di impegno, ci sto riuscendo. Eppure le reazioni sono state del tutto inattese. C’è chi non ha capito e mi ha dato della matta, chi considera le mie decisioni un semplice gioco e chi mi ha deriso apertamente: un bottino non molto soddisfacente, a ben pensarci. Solo un piccola parte mi ha sostenuto e ha capito le mie motivazioni.

Le parole possono ferire, ma le reazioni possono demolire. Se non fossi convinta che le decisioni prese siano quelle giuste, frutto di una lunga riflessione, sarei assalita dai dubbi. Sono sempre più convinta, però, che sia più semplice demolire che appoggiare chi ha il coraggio di cambiare.