Arcadia

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In questo mondo mi sento affondare, il terreno perde consistenza sotto i piedi, il cielo si allontana, il suolo si chiude in una morsa umida che smorza il respiro. In Arcadia questo movimento di discesa rimane sconosciuto, appartiene a una realtà lontana, al mondo delle leggi fisiche e della gravità.

Arcadia è il cielo infinito, solcato da una nave che si destreggia tra stelle e pianeti, tra meteore e comete. Arcadia è aria rarefatta, è vento e brezza, è sogno che si cristallizza in leggere nubi. Arcadia è cristallo che si infrange con uno sciabordio lieve, è acqua che culla il vagabondo e lenisce il ferito.

Tutto è possibile: grazie ad ali di arcobaleno il cielo dischiude i suoi arcani, senza il timore della vicinanza al sole. Pinne e branchie permettono di esplorare la pace ovattata del regno marino. Puoi essere leone o gazzella, aquila o delfino. Puoi ridere e gioire, senza paura di sguardi colmi d’invidia e traboccanti di giudizi.

Ad Arcadia puoi anche piangere, se ti va. Nessuno richiede il sorriso da rivista, nessuno pretende una testa china, ma sempre disponibile e preparata. Ad Arcadia non c’è fallimento, non ci sono cadute. Arcadia non conosce gravità.

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Dafne

Scappi dall’amore. Vuoi la libertà e chiedi aiuto al cielo.

Attraversi la foresta correndo. I piedi non calzano sandali, ma nudi affondano nella morbida erba e tra le foglie umide. La veste segue sinuosa i suoi movimenti in fuga.

Dietro un dio voglioso che si avvicina sempre più. Anche lui invoca gli dei, per soddisfare il suo amore.

La giovane chiede aiuto agli alberi, la sua casa, al fiume, la sua famiglia, ai cerbiatti, i suoi amici, alle stelle e ai venti.

Il dio la invoca, la prega, la rimpiange.

Infine la pietà divina volge gli occhi alla ragazza. E la sua pelle muta consistenza. I suoi piedi non si staccano più dal suolo, le mani seguono il ritmo della brezza.

E al dio non resta che abbracciare un tronco nodoso.

Pulsazioni

Sotto le dita le tempie pulsano come impazzite. Sembra il cuore di un uccellino reduce da un folle volo.

E anche tu vorresti partire e spiegare le ali, vorresti che il cuore battesse per emozioni travolgenti, per il suo tiranno amore, per la sua signora adrenalina. Non per paura. No, non per quell’infida creatura capace di sconvolgere il ritmo vivifico.

Le tempie pulsano. Sembra che il sangue voglia fuggire, che aneli alla libertà. Rompere gli argini come un fiume e mostrare tutta la sua potenza.

Fuggire. Sì. Avere la possibilità di lasciare alle spalle tutti gli errori, le leggerezze che ora ti trascinano inesorabili verso il fondo, come palle di ghisa agganciate alle caviglie.

E intanto ti chiedi come fare. Come fare a spiccare il volo. Come fare a fuggi. Come uscire da questa gabbia.

Ali di cristallo

In questi giorni sono stanca. Stanca delle ingiustizie, stanca di aspettare, stanca di pensare, di preoccuparmi. Stanca di sorridere e di far finta che vada tutto bene. Stanca di questa stanza, di questa città, di questi estranei.

Perciò ho voglia di scappare sul dorso di un uccello dalle ali di cristallo stringendo forte tra le dita piume colarate, dalle sfumature accese, vive e vibranti. Rosso, azzurro, verde, arancio. Un turbinio fantastico che si piega docile al vento.

Allora andiamo, abbandoniamo le terre nebbiose, i massicci che tolgono il respiro, i vincoli che trattengono le gambe, le strade tortuose che sembrano non avere fine.

Fuggiamo via, accompagnami in cima a montagne vertiginose mai violate da uomo, per poi andare in picchiata, con il vento feroce tra i capelli, giù, sempre più in basso tra le rughe profonde della terra, là dove il sole è solamente un ricordo lontano.

Le tue piume cristalline possono schiudere mondi sconosciuti. Immense praterie colme di fiori, popoli curiosi che vivono in armonia, luoghi dimenticati sotto il deserto dei tempi. Mostri,eroi, furfanti, magie e stregonerie di ogni sorta. Un impossinbile mondo parallelo in cui tutto è possibile, in cui il debole educa i forti, e la fatica riceve sempre giusta ricompensa.

Fammi sentire le musiche sconosciute, odori di fiori di altre ere. Fammi vedere le stelle e le galassie, passeggiare sulla luna o nuotare nelle profondità ovattate degli abissi marini.

Vola, finché puoi, finché le tue ali non si infrangono, lasciandomi precipitare ancora una volta in questa dolorosa incertezza.

In fuga

Non aveva legami. Per scelta e per necessità. Era solo.

Alcuni avrebbero potuto considerarlo libero. Ma lui si sentiva spesso in trappola. Una gabbia invisibile costruita con le sue stesse mani.

Non riusciva a partire, non aveva nessuno al suo fianco con cui condividere, con cui parlare. Non riusciva a capire ciò che per molti era così semplice, l’amore. Questo sentimento gli risultava un estraneo, un enigma fatto di occasioni perdute, di esperienze da dimenticare, di rifiuti cocenti, di rimpianti e ferite.

Il passato era passato. Domani andrà meglio. Erano parole vuote che si ripetava costantemente, ma che sapeva essere solo involucri privi di significato.

Per questo avevo tentato una fuga diversa, non fisica. Non c’erano valigie da preparare, porte da chiudere, fuochi da spegnere.

Si distese semplicemente tra l’erba alta del prato e guardò il cielo. Si immaginò uccello, libero dalla gravità, mentre volteggiava tra le nubi. E tra le torri del cielo abbandonò anche quel corpo pennuto e mutò natura divenendo lui stesso nuvola. Procedeva spedito sospinto dal vento, finché non si sentì pesante, instabile, nero e precipitò come tempesta a terra. Si infiltrava nella terra umida, si perdeva in ruscelli veloci, in immensità salate, sciovolava tra le rocce scoscese.

In quel viaggio la solitudine si annullava. Vedeva uomini che si muovevano come una massa informe a terra, avanzavano lentamente e per breve spazio, per poi tornare indietro.

Da goccia, poi, poteva scorrere leggera sulla pelle di una ragazza, poteva accarezzare capelli e volti. Era in grado di portare la vita anche nel deserto.

Per superare la paura dell’abbandono, racchiudeva in sé tutto il cosmo.

Per trovare amore infrangeva i suoi confini mortali.

Per fuggire dai suoi pensieri diventava tempesta.

Ponti

Ci sono racconti, voci, di un ponte non costruito da mani umani. Un ponte senza pietre e senza archi. La sua posizione non può essere segnata su nessuna carta.

Alcuni sostengono che sia opera di una qualche divinità, altri di un qualche demone, altri ancora che sia stato costruito dalla parole, dalla fantasia o dalla speranza.

Su un solo punto tutti sono concordi: il ponte deve portare da qualche parte, collegare due punti, rendere accessibile ciò che altrimenti non lo sarebbe.

Forse è l’accesso a qualche mondo sconosciuto, alla dimora degli dei. Un arco unico fatto di luce scomposta nei suoi mille colori. Impossibile da attraversare per qualsiasi uomo, ma non per un dio.

O forse è il varco da cui si insinuano i sogni, gli spettri, gli spiriti. Un esile dorso nero e invisibile che mette in comunicazione il mondo intangibile e quello corporeo. Un braccia tra la realtà e l’inconsistenza che permette all’impensabile di accadere.

È quella passerella fragile che pochi riescono a percorrere. Porta a un mondo parallelo e immenso, in cui sorgono città sconosciute, in cui abitano persone che qui non potresti mai incontrare. E in questa immensità si perde chi riesce ad accedervi, la esplora, osserva luoghi antichi e futuristici, creature mitologiche e animali mai visti. Apprende storie, conosce uomini, gnomi, giganti. E da questo mondo tornano, carichi di meraviglia e di voglia di raccontare.

O forse quel ponte non è unico. Si moltiplica, diventa per ognuno un ponte diverso per fuggire da questo vasto mondo a volte troppo angusto.

Fuga

A volte voleva scappare. Esattamente come nei libri. Perdersi in un altro mondo, cadere in un buco per trovarsi in un mondo strano, in cui l’impossibile diventava realizzabile. Avrebbe voluto essere una nuova Alice.

Eppure a fuga era seguita fuga, e il suo mondo perfetto era rimasto un semplice sogno. Nessun candido coniglio che la guidasse per la retta via, nessun dolcetto che le offrisse soluzioni. Solo scelte che spesso avevano comportato dei rimpianti.

E ora era bloccata in un mondo reale che aveva del surreale. In una città che non riusciva a considerare casa, con persone che non avrebbe voluto conoscere. Un mondo strano, in cui il rispetto non si poteva dare per scontato, in cui il lavoro difficilmente viene premiato.

Un mondo in cui stentava di trovare il suo posto.

E ora era stanca. Desiderava fuggire ancora, ma le gambe si erano fatte pesanti. Voleva vedere nuovi luoghi, ma gli occhi si erano appannati. Desiderava un cambiamento, ma le mancavano le forze.

La convinzione di aver commesso gravi errori la incatenava i piedi. La solitudine e la paura di essere incapace di amare le affondavano le loro gelide dita nel cuore. La sensazione di essere perennemente fuori posto chiudeva in strette spire i suoi polmoni.

Una forte rabbia ardeva nascosta nel ventre, alimentata da domande che non avevano una risposta. Era come un piccolo mostro che cresceva ogni giorno, divorando le interiora.

Proprio nel momento in cui bisogna lottare più che mai le braccia rimanevano immobili, inermi,dritte lungo il corpo.

Va bene,riposa. Ma dopo, preparati. Se non vuoi soccombere la lotta è l’unica via.

Fantasma

Stava rinunciando a tutto.

Aveva cominciato con i sogni. Li aveva accantonati convinto che non avrebbero portato a nulla di buono o che lui non sarebbe riuscito mai a realizzarli.

Aveva rinunciato all’amore. Pochi si erano avvicinati e i loro timidi tentativi erano stati prontamente rifiutati. Non solo. Neppure lui riusciva ad amare se stesso. Come, quindi, avrebbe potuto donarsi a un qualcun’altro, se disprezzava ciò che era?

Anche l’amicizia era diventata un miraggio. Lasciava passare le giornate in solitudine. Non parlava con nessuno. Solo i suoi pensieri gli facevano compagnia, e non era gradita.

Si sentiva ogni giorno più sottile, più debole. Si guardò allo specchio, e riconobbe il suo volto. Ma era pallido ed emaciato.

Allora cominciò ad avvilire il suo corpo. Non lo ritenne degno di vestiti, né di cibo o di acqua. Se gli fosse stato possibile, lo avrebbe privato persino dell’aria.

Lo specchio rifletteva l’immagine di un uomo sempre più sciupato, quasi trasparente. Anzi, a ben vedere riusciva a scorgere gli oggetti che si trovavano alle sue spalle. Era diventato una sorta di velo.

Stupito portò una mano al torace, ma non sentì niente. La allungò allora per afferrare un libro, ma le sue dita non fecero presa.

In quel momento realizzò di esserci riuscito. Aveva annichilito se stesso, rinunciando a tutto. Era diventato ombra, spettro fantasma.

Finalmente era libero, senza i dolorosi corporei e sociali che tanto lo avevano tormentato.

E come un soffio di vento fuggì lontano.

Libertà

Il giorno era arrivato. Il giorno della ribellione.

L’orso ruppe la catena, spezzò la museruola, si sbarazzò delle pezze che fasciavano le zampe.

Mai dimentico della sua natura selvaggia, scomparve nei boschi. La sua casa, la sua patria la stava aspettando. I giullari, perplessi, rimasero sulla strada immobili. In mano tenevano un moncherino inutile di corda.

Una vita in gabbia, a vedere il piccolo mondo degli uomini, a mangiare carcasse. La frusta era stata la sua maestra, il collare il suo unico compagno, le grida il solo verso che conosceva. Oltre quello delle risate.

Risate crudeli che ferivano più di mille sferzate. Deridevano la sua goffaggine nel reggersi su due piedi. Ridevano della sua disperazione, del suo grugnito che non era altro se non una richiesta di pietà.

Aveva conosciuto solo quel mondo. Il tendone, gli umani che lo tenevano al guinzaglio o in gabbia mentre lo portavano da un villaggio all’altro. E lui non eta più una creatura,era solo un gioco, una curiosità, un intrattenimento circense.

Ma, a volte, quando costeggiavano il bosco, sentiva un richiamo, sentiva una forza violenta, una nostalgia mordace.

Voleva andarsene, abbandonare quel posto opprimente, quelle persone insoddisfatte e violente, che godevano del dolore altrui, sperando di trovare sempre una qualche creatura da maltrattare e schiacciare.

Voleva trovare il suo posto, la sua tana sicura, accogliente, i suoi simili che lo avrebbe rispettato.

Voleva indietro la sua dignità,

Basta colori sgargianti, vincoli, beffe, violenze.

Era ora di andare, era ora di conquistare la libertà.

Agave

Paralisi interiore. Così si sentiva mentre se ne stava chiusa nelle sue stanze, le più remote all’interno del palazzo. Era in gabbia. Non solo. Il suo cuore era rinchiuso in una prigione che gli impediva di battere più forte. Una barriera pesante, scura, che occultava le sue passioni e i suoi sentimenti.

Era un ramo spezzato, secco, piegato a terra prima ancora di aver avuto la possibilità di sbocciare.

Era un giorno grigio d’inverno, in cui il cielo era nascosto da una trapunta di nubi.

Era un feto atrofizzato, bloccato dalla paura di mostrare veramente chi fosse, di ballare nuda e libera, dimentica delle ferite e delle preoccupazioni.

Finché un giorno non decise di abbattere quel muro. E corse. Corse fuori dalle sue stanze. Corse fuori dal palazzo, dalla città. Superò i campi, il fiume, rifuggì le case, e si rifugiò nel bosco alla ricerca di quel raggio abbagliante che avrebbe squarciato le nuvole.

E iniziò una danza sfrenata, infernale, senza mai fermarsi se non quando le ginocchia cedettero e i mille colori che le vorticavano attorno non assunsero i toni della morte.

Nelle narici l’odore dell’erba fresca le dava forza vitale. Sognò di volare vicino al sole con la pelle che ardeva, e di precipitare tra l’indifferenza della gente in acque sconosciute. Si immaginava mentre nuotava tra creature meravigliose e terrificanti per poi emergere più viva che mai. Si vide nei panni di una cacciatrice che con una forza inaudita abbatteva un leone. Le sembra quasi di sentirne il calore del sangue che le colava dalle mani.

Che la prigione sia abbattuta. Per sempre. A qualsiasi prezzo.